Mettiamoci una tappa

In questo venerdì 13 di anno bisestile e pandemico proviamo a viaggiare con la fantasia, in attesa di poterlo rifare nella realtà. Si parte dal doppio-scritto di Riccardo Curreli, pubblicato su questo sito nel novembre 2018, che trovate a questo link.

Le vicende di Pietro, il protagonista,  hanno destato curiosità e interesse. In particolare, è stato chiesto all’autore di dare un finale alla storia. Ci è così venuta l’idea di proseguire il racconto e di farlo insieme a voi. L’idea è quella di scrivere il racconto di un viaggio al quale chi vuole può aggiungere una tappa. L’unica regola da rispettare è quella di concludere l’episodio in un luogo di partenza (stazione, porto, aeroporto…). Per il resto c’è totale libertà di far dire o fare al protagonista quello che si vuole (sarà ovviamente apprezzato l’impegno a tener conto delle vicende precedenti). Pietro potrà visitare città diverse, tornare negli stessi luoghi, conoscere nuove persone e sentire le loro storie, leggere una notizia o una poesia sul modello del viaggiatore notturno e invernale di Calvino. Per partecipare potete usare il modulo contatti del sito o scriverci su Facebook. 

Ecco l’inizio della storia:

Tra i tavolini, nella piazza davanti alla Cattedrale, Pietro divertiva turisti e passanti. La chiesa era bella e lui l’aveva sentito subito. Bella chiesa, molti turisti. Ma non era stato solo per quello. È che quella bellezza l’aveva toccato, e standoci vicino si sentiva a casa. Comunque era lì, a suonare la sua fisarmonica. Non era nuova, anzi. Ma in buone condizioni, e valeva quanto l’aveva pagata. Era diventato bravo, e i soldi arrivavano. Le dita saltavano agili sui tasti, e le melodie balcaniche e italiane avevano il loro successo. Andavano da sole, lasciando la testa libera per i fatti suoi.

Era scappato.

Cosimo, alla centesima volta che lo portava fuori a fare il giretto in macchina, i cinque minuti di libertà, era sceso per aprire il cancello. Pietro aveva preparato quel momento per un anno intero. Quando il cancello si era aperto aveva accelerato sgommando. Sopratutto si ricordava di questo, aveva sgommato! E calcolato tutto. Sapeva che Cosimo sarebbe corso dentro, che avrebbero chiamato i carabinieri e che avrebbero tentato di inseguirlo. Ma lui in 20 minuti aveva raggiunto la stazione, mollato la macchina ed era corso a Stampace, dove aveva trovato rifugio per 24 ore in uno dei sottani brulicanti di senegalesi che per 50 euro avevano accettato di ospitarlo. Il tempo di andare all’appuntamento con chi gli aveva procurato il documento falso ed il biglietto per la nave per Napoli, tutta roba organizzata in darknet nei pochi minuti di connessione che gli davano ogni giorno, e si era imbarcato. A Napoli gli era stato facile restare nell’ombra, con l’aiuto della rete degli Albanesi. Era dimagrito e si era fatto crescere una barba folta. Dopo essersi procurato un cellulare pulito, si era spostato di costa. Era arrivato a Bari, pensando che da lì in qualche modo sarebbe riuscito a tornare in Albania. Invece il tempo era passato, e non era stato un tempo favorevole agli sconfinamenti: tutto era presidiato, e non tanto per la sua fuga, un po’ dimenticata, ma per i migranti.

La fuga.

Intanto si sentiva in colpa per i casini che aveva creato. C’era stata un’inchiesta, e un po’ tutti avevano passato guai. Non solo Cosimo, per cui gli dispiaceva più di tutti, la persona che gli aveva dato più affetto. Ma molto anche per Carla, la psichiatra con cui trascorreva la maggior parte del tempo: alla fine l’aveva convinta a dargli fiducia. Sotto sotto però ci godeva. Uff che palloso lo psicologo, basso e grasso, parlava sempre e non ascoltava mai! E l’infermiere Paolo, con i suoi riccioli biondi e la sua mania di suonare la chitarra e di saperla lunga sulla vita! E la Guardia Michela, grande grossa palestrata, tutti i santi giorni a dimostrare che ai maschi la sapeva cantare… E Filippo, l’educatore, piccolo e carino, così femminile che sarebbe stato benissimo con gonne corte e tacchi alti. Insomma, li aveva messi tutti nel sacco, e una certa soddisfazione ancora cela cavava, ad averli fregati, compreso il capo, che non c’era mai, sempre con le sue riunioni dall’assessore… e quando c’era sempre a metter regole. Però…

Però non non c’erano dubbi: gli avevano dato tutto, compresa la possibilità d’imparare a suonare la fisarmonica. A Matera se n’era procurata una, usata ma in buone condizioni, poche centinaia d’euro. Ed arrivato a Bari aveva messo a frutto. Tutte le sere, più a lungo nei fine settimana, tra  i tavolini dei ristoranti ci dava dentro, inzuppando la camicia di sudore ma bravissimo, col suo repertorio personale ma anche capace di accontentare le richieste dei clienti. Tirava su parecchio, a fine serata, e dopo pochi mesi aveva potuto lasciare l’appartamento che condivideva con quattro manovali di Tirana, e si era potuto permettere un piccolo locale mansardato nella città vecchia, tra i baresi che a differenza di altre città non cedevano e non si facevano mandare vie dalle case che le loro famiglie avevano occupato da generazioni. La fisarmonica era stata la svolta. Non solo gli dava da campare, ma l’aveva anche aiutato a riflettere su quello che voleva fare. Tornare in Albania no, non avrebbe avuto senso. Come suonatore non avrebbe alzato un Lek. Invece lí guadagnava tanto da chiedere a Sofia di raggiungerlo. Aveva pensato a lei ogni giorno dei due anni passati lí, ed aveva quasi raccolto quello che serviva per pagarle il viaggio da Valona. Beh, non aveva pensato solo a lei, chiuso nella struttura. Le infermiere le aveva guardate, e anche sognate, ma erano stati sogni da recluso. Cercava di immaginare come sarebbe stata la vita in due, in quello spazio così piccolo, e con i soldi che non erano certo da buttare. E, per dirla tutta, aveva una bella dose di paura. Non solo di rivederla e di scoprire che le cose non erano più come prima. Ma anche di sé, dei suoi cambi d’umore sempre lì a dargli fastidio, e a dirgli che era ancora lui, bene o male. Sofia comunque non si decideva, forse non poteva e forse non voleva. E lui sentiva sempre più forte il bisogno di essere ascoltato, di essere guardato, ma non come gli capitava tra i tavolini: li era al centro dell’attenzione, però non c’era davvero. Non c’era quella parte che non mostrava più a nessuno, perché a nessuno interessava e perché nessuno era più costretto a guardare: Pietro che faceva casino, Pietro che si immusoniva, Pietro che piangeva. Gli veniva l’idea che forse Sofia la voleva per questo, e si sentiva soffocare, perché sentiva che ad un certo punto non gli sarebbe più bastata, avrebbe voluto un pubblico diverso. Queste cose gli facevano venire l’insonnia, e aveva cominciato a camminare di notte, nel labirinto delle strade del centro o per il lungomare. Andava e veniva tra i due porti, fino a quando la gente andava via dai ristoranti e restava solo con i suoi pensieri. Camminava fino a stancarsi abbastanza da dormire. Non prendeva più farmaci e faceva fatica a prendere sonno. In una notte così aveva trovato il Nano. Aveva sentito un lamento, e si era avvicinato, entrando in un vicolo. Il Nano sembrava un bambino, raggomitolato per terra, la faccia tumefatta e una ferita in testa da cui usciva un bel po’ di sangue. Pietro all’inizio era restato fermo. Poi d’impulso aveva sollevato quel corpo piccolo e a piedi l’aveva portato a casa. Il Nano in pochi giorni si era ripreso, non era grave. Aveva raccontato una storia di soldi non resi, che viveva all’alloggio dei senza tetto sotto le carceri e che mangiava alla mensa. Dopo una settimana sen’era andato, e dopo un mese era tornato, per abitarci. Alla terza volta che si erano visti in Piazza, era stato Pietro a fargli la proposta. Si era fatto due conti e gli aveva detto: “ Vieni a casa, mi diverti il pubblico mentre suono e se guadagniamo di più é più facile per le spese”. Il Nano non se l’era fatto ripetere due volte: sapeva far ridere e di vivere all’ospizio non ne poteva più. Per tutti e due non era solo una questione di conti. Avevano voglia, senza dirselo, di rendere conto a qualcuno di quello che facevano, di tornare tardi e di sentirsi dire: dov’eri? Per la prima volta Pietro viveva con qualcuno per convenienza e affinità, e il Nano (Ma come ti chiami, Nano? E tu chiamami così, che il mio nome non mi piace) si sentiva a suo agio, in qualche modo protetto e libero dalla voglia sempre sentita di tirare fregature ad un amico. E Pietro come al solito si sentiva tirare da una parte e dall’altra. Più stava bene col Nano e più aveva l’impressione di accontentarsi. Quasi gli dava la colpa di fargli dimenticare la sua famiglia, e un po’ gli voleva bene e un po’ sentiva qualcosa rodergli. Una famiglia con cui non aveva praticamente più contatti, se non quelli rarissimi con la madre. Il Nano lo capiva, e non se la prendeva. Quando Pietro arrabbiato con se stesso gli dava addosso ascoltava, non diceva niente, versava due bicchieri di vino. Non lo compativa, non lo consolava e non lo contrastava. Ci beveva insieme finché Pietro non la piantava e sene andava a letto. Il Nano a quel punto si scolava quello che rimaneva e pensava che l’indomani le cose si sarebbero aggiustate. E difatti il giorno dopo in piazza come se niente fosse. Il Nano non faceva il buffone mentre Pietro suonava. Semplicemente stava vicino a lui, seduto su uno sgabello, e lo guardava con un’aria divertita e assorta, contagiosa. Dopo un po’ i passanti si fermavano e facevano lo stesso, come se si chiedessero cosa ci fosse da guardare. Il Nano faceva delle mosse impercettibili, minime, che fatte da chiunque altro sarebbero passate inosservate. Si accendeva una sigaretta, accavallava le gambe, si stiracchiava. E quando si formava un gruppetto sufficiente faceva il segno a Pietro di smorzare il volume, e raccontava una o due storielle. Fatti veri o di fantasia, ma ben detti, con ironia divertente. La gente si scopriva rilassata e sapeva ringraziare. La sera, fatti i conti, spesso si separavano. Pietro imparava nuove melodie e stava coi suoi pensieri, il Nano usciva. Certe volte tornava eccitato, spesso di cattivo umore, qualche volta contento. Pietro l’aveva capito abbastanza in fretta, ci era passato: il Nano giocava. E adesso il vino lo tirava fuori lui, ed era il suo turno di stare ad ascoltare. Non c’era voluto molto, il nano era entrato in un giro di scommesse, roba brutta, combattimenti tra cani. Pietro lo aveva seguito e aveva scoperto due cose: che la gente che gestiva le scommesse era pericolosa, e che il gioco d’azzardo ancora gli faceva venire i brividi. Rapidamente il poker aveva cominciato a mangiargli i soldi, come i cani mangiavano quelli del Nano. Per un po’ di tempo avevano smesso di parlarsi, inariditi. Finché un giorno il Nano era sbottato, tutti e due avevano vuotato il sacco, e così tanto non si erano sentiti mai capiti. Invischiandosi sempre di più nel giro, dibattendosi, Pietro capiva perché più desiderava uscirne e più giocava. Nell’immagine riflessa che il Nano gli dava vedeva chiaro, e con quella faccia allo specchio sentiva un legame. Sdoppiato, tossico, non si sentiva più solo. Seguiva il Nano come un’ombra, e quella notte non c’era niente di diverso. Il Nano davanti e lui due angoli dietro. Quando lo vide era a terra, lo prendevano a calci in tre. Restò fermo, la bocca secca, teso.

Mentre questa è la prima “aggiunta”:

Un ragazzino avrebbe attivato le funzioni d’emergenza dello smartphone. Ma lui non era un ragazzino. Per la sua generazione le alternative erano due: restare o scappare. Restare significava combattere, scappare perdere un amico.  A prescindere dall’esito del pestaggio, con quale coraggio avrebbe incrociato lo sguardo del nano dopo averlo abbandonato? Combattere però non è mai bello. Bisogna essere cattivi per farlo e aveva passato gli ultimi due anni a imparare a non esserlo. Eppure l’aveva detto. Lo diceva a tutta quella gente pagata per rompergli i coglioni che bisognava saper combattere. E quando smise di dirlo smise di combattere. Avevano vinto loro e stava perdendo il nano. Troppe cose da pensare. Uno della sua generazione sarebbe già scappato o entrato nella mischia. Lui stava fermo, guardava e pensava. Cazzo guardi? La domanda lo scosse dalla comodità del non agire. Doveva rispondere. 

Si prese però il tempo di valutare la situazione. I tipi erano soltanto tre e l’ambiente circostante offriva tutto il necessario. L’istinto gli aveva già detto cosa fare… ma dov’era arrivato seguendolo? A suonare quella cazzo dì fisarmonica, insieme a quello stracazzo di nano che si era sicuramente guadagnato ogni colpo. Troppi se, troppi ma, troppi pensieri.  aveva deciso: Non doveva rispondere. E nemmeno preoccuparsi di come l’avrebbe presa il nano. La stazione non era lontana e in tasca aveva quanto bastava per prendere l’ennesimo treno. Giusto il tempo di raccogliere quattro cose e sistemarle sopra il sedile del treno.