L’indole umana è da qualche settimana sottomessa alle regole della biologia. Per paura del contagio l’animale sociale è rintanato in attesa che passi la tempesta. Tenersi a distanza dagli altri sembra infatti l’unico modo per arginare la diffusione di un virus che, seguendo logiche del tutto naturali, rischia di fare strage tra la parte più debole della popolazione.
È probabile che la stretta sugli spostamenti “ingiustificati” duri per tutto il mese di aprile: per non vanificare gli sforzi fatti finora dice qualcuno, per non aggravare ulteriormente gli errori delle scorse settimane, pensa qualcun altro. Non si può infatti negare che degli errori siano stati commessi, specie nel sottovalutare l’allarme di parte della comunità scientifica. Cercare di rimediare seguendo acriticamente i consigli delle nuove star televisive, gli esperti in virologia, sarebbe però la classica toppa peggiore del buco. Meglio un approccio multidisciplinare: tenendo presente, tra le altre cose, che la virologia suggerirà di portare avanti il blocco fin quando non si elimina il virus (in attesa del prossimo); che la medicina dovrà cercare di rendere possibile la ripresa delle normali attività, nonostante la presenza di un virus; che l’economia dovrà spiegare fin quando è possibile smettere di produrre senza rischiare il fallimento. Spetterà infine alla politica trovare la sintesi tra queste posizioni e prendere decisioni: chiedendosi se sia realmente raggiungibile il traguardo del contagio zero, e sopratutto a che costo. Presumibilmente si finirà con l’adottare la prospettiva del rischio ragionevole. Ossia applicando quei meccanismi – giuridici e sopratutto psicologici – che consentono lo svolgimento di attività pericolose. In altri termini, come si accetta l’idea di restare coinvolti in un incidente quando ci si mette alla guida, si accetterà l’idea di potersi ammalare (come del resto abbiamo sempre fatto). Accettare il rischio non esclude però l’esigenza di mitigarlo il più possibile, seguendo comportamenti corretti a livello individuale e rafforzando quel sistema immunitario collettivo rappresentato dal sistema sanitario.
Sarà dunque necessario ripartire il prima possibile per mantenerci sani, come individui e come società. A livello individuale c’è infatti da chiedersi se la rinuncia alla socialità, ossia a buona parte delle cose che rendono la vita degna di essere vissuta, equivalga, specie se prolungata, alla rinuncia della vita stessa. Sarà questo il tema dei prossimi mesi, specie per attività di svago come i concerti, che hanno senso soltanto se fruite in gruppo, o per la scuola, dalla quale sembra impossibile eliminare l’elemento di crescita rappresentato dall’interazione tra alunni.
Della questione economica è invece necessario parlare subito. Subito vanno infatti reperite le risorse per provare a superare la crisi, a partire da quelle necessarie a sostenere, e preferibilmente potenziare, il sistema sanitario, adeguandolo all’innalzamento dell’età media della popolazione.
Sul tavolo si confrontano diverse proposte, a partire da quella che il Governo ha fatto all’Unione europea: l’emissione di titoli di debito garantiti da tutti i paesi membri. Una sorta di fideiussione per cui l’Italia continua a farsi carico del proprio debito, ma il sistema europeo ne garantisce in ogni caso il rimborso (come succede quando i genitori si fanno garanti dei mutui contratti dai figli). In questo modo si evita la paura che tale debito non venga restituito, il che permette di mantenere entro un livello ragionevole i tassi d’interesse. Questa proposta incontra l’ostilità di paesi come Olanda e Germania. Gli olandesi sono ben felici di accogliere capitali privati sottraendoli al fisco italiano e, proprio perché testimoni diretti della nostra scarsa abilità nel trattenerli e tassarli, poco si fidano della nostra capacità di onorare il debito pubblico. L’Italia ispira poca fiducia anche ai tedeschi, che ci rimproverano di essere la cicala d’Europa: sono disposti ad aiutarci solo se saremo capaci, ovviamente sotto la loro guida, a trasformarci in formiche. Si tratta di posizioni in grado di mettere in discussione la sopravvivenza dell’esperimento europeo e lo fanno proprio quando è più evidente la necessità di rispondere a sfide difficilmente affrontabili dai singoli stati.
Al momento è l’Italia ad avere bisogno dell’Europa. Pertanto, se si ritiene davvero indispensabile varare i “Coronabond”, sarebbe il caso di fare il primo passo, mettendo sul piatto della trattativa qualcosa come l’abolizione del contante, o misure anche meno drastiche, a riprova della buona volontà di onorare gli impegni (è comunque probabile che alla fine prevalga l’interesse comune e le istituzioni europee si accontentino di molto meno).
Anche le opposizioni hanno le loro proposte. Matteo Salvini sostiene sia necessario un periodo di pace edilizia e fiscale. In sintesi, liberalizzare il settore delle costruzioni, sospendere gli adempimenti fiscali correnti e condonare i pregressi. Difficile però pensare alla ripresa del settore edilizio in una fase d’incertezza economica come quella che ci aspetta. Se la gente non ha soldi non costruisce nuove case, non ha bisogno di alberghi perché non viaggia e via dicendo. Convince poco anche l’idea di fare a meno alle entrate fiscali nel momento in cui ne abbiamo maggiore bisogno. La contrazione del gettito fiscale dovuta alla crisi sarà in ogni caso consistente e non sembra il caso di rinunciare ai soldi di chi può versare, e sopratutto a quelli di chi ha evaso.
Una simile misura equivarrebbe inoltre a porre una pietra tombale sulla trattativa con l’Europa. Non a caso Salvini propone anche l’emissione di quelli che chiama Bot di guerra, una sorta di autofinanziamento o, per adeguarsi al linguaggio bellico, di finanziamento autarchico delle spese statali. Proposta che richiama il Piano di difesa e ricostruzione nazionale presentato il 29 marzo da Giulio Tremonti con una lettera al Corriere della Sera. Per l’ex ministro delle finanze si tratta di convincere i risparmiatori italiani a investire nello stato mediante l’emissione di titoli pubblici a lunghissima scadenza, con rendimenti moderati ma sicuri e fissi, garantiti dal patrimonio (anche immobiliare) della Repubblica. La proposta è appena abbozzata, ma se ne intravedono le potenzialità.
È noto – ed è anche una delle ragioni dell’ostilità di alcuni paesi europei – che l’Italia possiede uno dei più grandi giacimenti di risparmio privato. Del tutto verosimile che la maggior parte di tale giacimento sia nelle mani della popolazione anziana. Anziani che, altrettanto verosimilmente, hanno risparmiato principalmente per due motivi: trascorrere una vecchiaia serena e poter lasciare qualcosa ai figli. Queste settimane stanno però dimostrando che la vecchiaia serena non è pensabile senza un servizio sanitario all’altezza. La possibilità di accedere alle terapie più costose serve a poco, se si è obbligati a stare in casa come tutti gli altri. Perfino il potersi permettere del personale di servizio, o più modestamente una badante, non mette al riparo dal rischio del contagio, anzi lo amplifica. E se domani colf e badanti dovranno rispettare nuovi e più elevati standard di sicurezza, difficile pensare che lo facciano allo stesso prezzo di oggi. Per una vecchiaia serena, almeno sotto il profilo sanitario, la soluzione migliore sembra pertanto quella d’investire nel sistema pubblico: ne fanno parte, e ne dipendono finanziariamente, anche le strutture private convenzionate. Investire nei titoli immaginati da Tremonti consentirebbe di farlo su base volontaria e senza rischi. Tali titoli, infatti, potrebbero essere donati, venduti per fare fronte a un imprevisto, maturerebbero interessi, potrebbero venire rimborsati a scadenza o perfino in anticipo, farebbero in ogni caso parte dell’asse ereditario.
Si possono immaginare due obiezioni a questa soluzione. La prima è ormai classica: non è detto che lo stato spenda bene i soldi dei privati. La seconda è ugualmente tipica: così facendo si rischia di dover vendere i beni pubblici. Ora, a parte il fatto che il bene pubblico è a servizio delle esigenze dei cittadini e non viceversa, la risposta a entrambe queste critiche si ricava da uno dei cavalli di battaglia di Giulio Tremonti: il federalismo fiscale. Da ministro ha infatti sempre sostenuto che gli sprechi si combattono rendendo più semplice il controllo sull’operato degli amministratori pubblici. La visione tremontiana si può riassumere come segue: esclusi i servizi essenziali di competenza statale, ogni regione potrà spendere soltanto ciò che incassa dalle imposte versate dai suoi abitanti. Di conseguenza, o il settore pubblico si impegna a sviluppare l’economia locale, o non potrà dare nessun servizio. Sempre di conseguenza, per avere servizi efficienti gli elettori dovrebbero scegliere con più attenzione i politici locali, dando così vita a un percorso di selezione virtuosa. È dunque sufficiente applicare questa ricetta al discorso sui titoli per capire che l’idea di fondo è quella di rendere i cittadini direttamente interessati alla gestione della cosa pubblica. Mentre le imposte sono considerate una spesa non recuperabile di cui interessa soltanto limitare l’importo, una sottrazione definitiva di ricchezza da dimenticare il prima possibile, l’investimento in titoli è invece, per definizione, un investimento a lungo termine di cui abbiamo a cuore la riuscita. In questo modo ci sarebbe un maggior controllo sulla spesa, con la conseguente riduzione del rischio di dover vendere o svendere i beni posti a garanzia (considerazioni che rendono questa soluzione preferibile a una patrimoniale).
La proposta in questione, inoltre, non sarebbe incompatibile con un accordo di sede europea. Il Piano di difesa e ricostruzione potrebbe convivere con l’emissione di titoli o con altri tipi d’intervento a livello dell’Unione. Non potrebbe però convivere con la proposta del reddito universale avanzata in questi giorni da Beppe Grillo. L’idea del sostegno al reddito funziona soltanto se tale sostegno riguarda una piccola parte della popolazione – come il reddito di cittadinanza – per il minor tempo possibile. In caso contrario si rischia il ritorno dell’inflazione (si possono anche dare 1000 euro a tutti, ma se aumentano i prezzi ci si compra ben poco): questo renderebbe poco appetibile l’acquisto di titoli di lunga durata e a rendimento fisso come quelli in questione.
Ugualmente difficile appare la convivenza con le proposte di Forza Italia, che si traducono in un azzeramento dei controlli sugli appalti pubblici. Se davvero i cittadini si sentiranno maggiormente coinvolti nella gestione della cosa pubblica, chiederanno strumenti di trasparenza, correttezza e risparmio simili agli attuali: questi si possono migliorare, ma non abolire (tra l’altro il codice degli appalti recepisce direttive comunitarie e il suo rispetto è condizione per la permanenza nell’UE). Discorso tanto più attuale quanto più si parla di nazionalizzare alcune imprese strategiche. L’intervento pubblico può essere utile, lo sperpero di risorse non lo è di sicuro (anche perché stiamo pur sempre parlando di debiti che, prima o poi, andranno saldati).