La filosofia del diritto di Gianluigi Buffon

Nell’aprile del 2018, subito dopo la semifinale di Champions League tra Real Madrid e Juventus, milioni d’italiani si sono ritrovati – spesso a loro insaputa – a parlare di giusnaturalismo e positivismo giuridico. A innescare la discussione sono state le parole di Gianluigi Buffon, che ha individuato nella particolare conformazione cardiaca   – un cassonetto dell’immondizia al posto del cuore – la ragione che avrebbe spinto l’arbitro inglese Oliver a fischiare il rigore decisivo. Il portiere della nazionale non ha infatti accusato il direttore di gara di aver visto male, ma di aver mostrato poca sensibilità: fischiando un rigore all’ultimo minuto che ha reso vani gli sforzi della Juventus. Secondo lui sarebbe stato «più giusto» far giocare i supplementari. C’è senz’altro una logica in questo discorso: che però si scontra con le regole del calcio, per le quali l’arbitro, se vede un fallo in area, deve concedere un calcio di rigore (a prescindere da minuto, punteggio, biografia dei calciatori, palmares delle squadre e storia della manifestazione). A bocce ferme – è proprio il caso di dirlo – e dando per scontato che il direttore di gara fosse sicuro del contatto falloso, la domanda diventa la seguente: meglio seguire le regole alla lettera o interpretarle, in modo da raggiungere un risultato che tenga conto anche di altri elementi? Si entra così nell’ambito dell’eterna contrapposizione tra Legge e Giustizia, in questo caso rispettivamente rappresentate dal regolamento del calcio e dallo spirito dello sport.

Di questo argomento si discute da millenni, e si collega alla distinzione tra ciò che è prodotto dall’uomo e ciò che esiste in natura. Per Giustizia si possono infatti intendere le regole universali che governano il mondo, che per qualcuno risalgono a Dio in quanto creatore della natura e della ragione umana (diritto divino), per altri direttamente alla natura che comprende l’essere umano (diritto naturale antico), per altri ancora esclusivamente alla ragione dell’uomo (giusnaturalismo moderno). Per Legge s’intende invece un prodotto artificiale, creato dall’uomo seguendo la propria ragione e volontà, che siamo soliti indicare come diritto positivo: “posto” dall’uomo e non “imposto” da qualcuno o qualcosa che lo trascende.

A favore della giustizia si schiera chi sostiene l’esistenza di un livello superiore rispetto a quello della legge umana. Lo schema è sempre quello di Platone: al pari delle altre idee,  la giustizia non appartiene alla sfera umana ma a quella divina, è un qualcosa di perfetto che possiamo solo cercare d’imitare. Non essendo umanamente possibile raggiungere la perfezione (altrimenti non ci sarebbe differenza tra noi e gli dei), la sfera di ciò che è Giusto in senso assoluto resta pertanto separata da ciò che è giusto in base alla legge. In termini più “terreni”, si può dire che la legge si occupa di ciò che succede di norma (la regola, per cui quando vede un fallo in area l’arbitro deve fischiare il rigore), mentre la giustizia comprende anche ciò che accade in via straordinaria (l’eccezione, per la quale è giusto premiare gli sforzi di una squadra fingendo di non vedere il fallo da rigore). 

Decidere quali sforzi premiare, ossia quando è opportuno fare un’eccezione alla regola,  dovrebbe essere compito dell’uomo chiamato in base alla legge ad applicare la legge medesima. Da questa evidente contraddizione emerge il peccato originale di questo genere di teorie. Lo capirono a Roma intorno al 450 a.c., quando il sospetto che alcune decisioni dei pontefici, teoricamente ispirate dall’osservazione dei segnali divini fossero in realtà animate da interessi più concreti, portò a scrivere XII tavole di leggi e ad affiggerle nel Foro. 

Vista l’importanza dell’esperienza romana per la storia del diritto, si può indicare in questo momento la nascita del positivismo giuridico, teoria che si contrappone a quella del diritto naturale, dotata delle seguenti caratteristiche: “Le norme giudicate vigenti su un determinato territorio e rivolte a un determinato gruppo umano costituiscono un insieme, se non proprio un sistema, un ordinamento, i cui caratteri fondamentali sono l’unità, che fa risalire le norme singole di grado in grado dalle norme inferiori a quelle superiori, sino alla norma prima, detta fondamentale (Kelsen) o di riconoscimento (Hart); la completezza, in conseguenza della quale il giudice può e deve, e deve perché può, sempre desumere una regula decidendi esplicitamente o implicitamente mediante il ricorso all’analogia o ai principî generali, per risolvere qualsiasi caso; la coerenza, secondo cui due norme antinomiche non possono essere entrambe valide, e per risolvere l’antinomia al giurista sono offerte alcune massime generali come lex posterior derogat anteriori, lex superior derogat inferiori, lex specialis derogat generali. Infine l’attività propria del giurista è l’interpretazione vincolata da alcune regole che inibiscono la creazione di norme nuove, se non nei casi in cui lo stesso ordinamento lo prevede, contrariamente a ciò che viene sostenuto dalle teorie, di tempo in tempo ricorrenti, del diritto libero o della libera ricerca del diritto” (Norberto Bobbio).

Elemento centrale del positivismo è la certezza: se c’è fallo si fischia sempre il rigore, quand’anche in tal modo si arrivi, per qualsiasi motivo, a un risultato sportivamente “ingiusto”. Altro aspetto fondamentale di questa teoria – connesso a quello della certezza – è la separazione tra chi scrive la legge e chi la applica (poche squadre sarebbero disposte a scendere in campo qualora all’arbitro fosse concesso stabilire “sul momento” le regole del fuorigioco). Tale separazione inizia quando il sovrano smette di esercitare in prima persona la funzione giudiziaria e la delega a dei rappresentanti che agiscono in suo nome. La certezza del diritto nasce di conseguenza a garanzia del potere del re, che voleva essere sicuro che i giudici applicassero fedelmente i suoi comandi nei confronti dei sudditi. Dal canto suo, il sovrano si collocava inizialmente al di sopra della legge, non soltanto perché questa non si applicava nei suoi confronti ma anche perché si  riservava il potere di derogarla in ogni momento, concedendo grazie e privilegi. Questa competenza sulle regole e sulle eccezioni ricorda l’idea di Giustizia di cui si è parlato sopra. Era del resto opinione comune che il Sovrano agisse in nome e per conto di Dio, e che la sua giustizia derivasse da quella divina. 

Col passare dei secoli questa posizione diventa sempre meno tollerabile: in alcune nazioni sono scomparsi i privilegi del re, in altre è scomparso direttamente il re. Oggi si pensa che l’unica legge alla quale dobbiamo obbedire sia quella che abbiamo contribuito a creare. Per questo motivo, nello stato di derivazione liberale il contributo del cittadino alla formazione della legge consiste principalmente nella scelta dei parlamentari, che detengono il potere legislativo (fare la legge) distinto dall’esecutivo (applicarla) e dal giudiziario (sanzionarne la violazione). Il positivismo giuridico diventa così una teoria utile a difendere il rispetto della volontà espressa dai rappresentanti del popolo mediante la legge. Rappresentanti che però nessuno si azzarda a considerare infallibili. 

La differenza col sovrano emerge infatti sotto il duplice profilo teorico e pratico. Dal punto di vista teorico, i parlamentari non si ritengono autorizzati a tradurre in atti umani la legge divina.  Sotto il profilo pratico c’è invece il problema della minoranza. Quella del sovrano era una volontà chiara perché unica, il parlamento è invece chiamato a fare la sintesi di tante volontà diverse e ci riesce raramente, la legge è quasi sempre espressione della sola maggioranza. Di quest’ultimo problema si sono fatte carico le costituzioni del secondo dopoguerra, che pongono dei limiti alla legge, in modo da impedire la lesione dei diritti fondamentali di chi non approva le decisioni del parlamento. In definitiva, la legge approvata dalla maggioranza non può disporre qualsiasi cosa, ma deve rispettare la giustizia – “umana” e non divina, possibile e non “assoluta” –  espressa dalla costituzione e dall’ordinamento giuridico.

Un esempio di questo discorso è fornito ancora una volta da Bobbio, quando nei suoi Studi per una teoria generale del diritto spiega: «Come i presunti caratteri formali della norma giuridica rivelino assunzioni di valori, e quali siano i valori soggiacenti ai requisiti della collettività, generalità e astrattezza degli imperativi giuridici», nonché: «Come avvenga la trasposizione dal piano deontologico al piano ontologico dei cosiddetti caratteri costitutivi delle norme giuridiche». Per il filosofo torinese – che su questo punto legge Kelsen alla luce di alcune considerazioni di Giorgio Del Vecchio e Felice Battaglia – è infatti evidente il collegamento tra i caratteri formali delle norme giuridiche (in particolare quelli della generalità e dell’astrattezza) e i valori dell’uguaglianza, dell’imparzialità e della certezza, in quanto: «Sotto l’apparenza di essere note oggettive questi caratteri sono in realtà requisiti soggettivi, ovvero sono attribuiti alle norme in base ai valori a cui si vorrebbe che l’ordinamento giuridico si ispirasse». 

Dall’apparente freddezza delle disposizioni giuridiche si può dunque risalire al calore degli ideali di giustizia. La costituzioni contemporanee hanno reso esplicita questa relazione e indicato gli ideali da perseguire (per evitare che le norme positive possano riflettere ideologie aberranti come quella nazista). Il rispetto della legge è, di conseguenza, il modo per realizzare l’ideale di giustizia prefissato dalla costituzione. Rispettare la legge significa applicarla in maniera corretta, ma qual è la maniera corretta di applicare la legge? Per chi segue l’impostazione positivista è necessario seguire le regole senza fare alcuna eccezione (tra le regole da seguire rientra anche la possibilità di attendere che vengano risolti i dubbi di costituzionalità di una norma). C’è poi chi pensa che il rispetto della legge sia soltanto uno degli elementi da tenere in considerazione per arrivare alla soluzione “giusta”, e sia pertanto più importante affidarsi alla “sensibilità” del giudice, che dovrà valutare di volta in volta se sia o meno il caso di applicare la legge.

Le parole di Buffon richiamano la seconda di queste posizioni, e vanno lette insieme alle dichiarazioni che il portiere (ormai ex) juventino fece all’inizio del campionato a proposito dell’introduzione del Var, la c.d. moviola in campo: “Parto dal presupposto che bisogna liberare gli arbitri dal mostro, anche per poter valutare serenamente la bravura di un direttore di gara che si deve prendere la responsabilità delle decisioni in base alle percezioni del campo”. In quest’ottica il Var è infatti un limite alla discrezionalità arbitrale, che per Buffon è una delle componenti del gioco del calcio. Per lui non è importante  che l’arbitro veda “tutto” da diverse angolazioni, ma “capisca” quando è meglio fingere di non vedere.

Si tratta di una posizione tutt’altro che isolata, sopratutto a Torino. Il capoluogo piemontese, oltre a essere la storica sede accademica di Gustavo Zagrebelksy, che con la sua opera Il diritto mite ha portato al di fuori delle aule universitarie il  neocostituzionalismo italiano,  è infatti al centro di un’altra vicenda che rimanda alla contrapposizione tra legge e giustizia. Si tratta della decisione del sindaco Chiara Appendino di iscrivere all’anagrafe un bimbo nato in Italia da coppia gay, registrando come genitori le due mamme nonostante, durante il dibattito sulla legge Cirinnà, questa possibilità sia stata esclusa dal Parlamento – la legge è stata approvata con i voti del “Nuovo centrodestra” che chiese e ottenne di eliminare la stepchild adoption dal testo – e sia stata recentemente esclusa perfino dall’amministrazione della sua collega Virginia Raggi. Il caso di Roma è particolarmente interessante – Il 28 aprile è stata registrata all’anagrafe una bimba con due papà, mentre mese esatto dopo, il 28 maggio, Roma Capitale ha scelto di non iscrivere nei registri la nascita di una bimba con due mamme – e ci ricorda quale sia il vero problema dell’affidarsi alla sensibilità del giudice, dell’arbitro o del funzionario comunale: non possiamo conoscerla in anticipo e non sappiamo se corrisponda o meno al nostro modo di pensare. 

Per i sostenitori dell’ennesima riproposizione del diritto naturale, che prende il nome di neocostituzionalismo, la discrezionalità è una caratteristica ineliminabile di ogni sistema giuridico. Secondo loro il positivismo non avrebbe finora impedito ai giudici di trovare il modo per vedere quello che hanno voluto vedere. Se eliminare la discrezionalità non è possibile, diventa di conseguenza necessario  cercare di disciplinarla, insegnando a guardare “oltre” la legge per andare alla ricerca della giustizia. Ricerca che consiste nel bilanciare i contrapposti interessi di rango costituzionale, decidendo di volta in volta a quale dare priorità. Portato all’estremo, questo ragionamento arriva a sostenere che non esistono regole ma solo eccezioni, perché ogni caso concreto ha delle caratteristiche capaci di renderlo unico. La ricerca della soluzione “giusta” rischia così di sacrificare quella “soltanto” possibile  offerta dall’Ordinamento giuridico e dalla sua pretesa di certezza. Si può essere d’accordo sul fatto che tale certezza sia poco più che un illusione: bisognerebbe però riflettere sul valore sociale di questa illusione e chiedersi se sia davvero possibile farne a meno.

Una versione meno calcistica e più dettagliata di questo articolo è stata pubblicata da Pandora rivista di Teoria e Politica, col titolo La certezza del diritto come illusione necessaria?