Ricorre quest’anno il quarantennale della legge 180 e credo che nei mass media tradizionali, almeno in TV, non se ne sia parlato molto. Nei cosiddetti social media non so.
Colpisce questo silenzio proprio in questo momento storico nel quale proliferano le giornate commemorative di questo e di quello, quella dei tumori, del diabete, delle foibe, dell’ambiente e cosi via.
È probabile che questo silenzio sia stato avvertito dagli operatori che lavorano in ambito psichiatrico essendo tradizionalmente legati agli aspetti sociali e di contesto, oltre che di cura in senso stretto, dei loro pazienti.
Ancora di più, crediamo, sia stato avvertito da quegli operatori, più avanti negli anni, i quali durante la loro formazione giovanile hanno vissuto una stagione complessa della storia italiana.
Stagione caratterizzata da uno scontro sociale durissimo in cui il dibattito sulla sofferenza mentale si impastava di valenze ideologiche spesso estreme, rivoluzionarie si sarebbe detto allora.
Periodo in cui non si esitava a definire gli operatori sanitari del settore, gli psichiatri, i cani da guardia dello stato borghese.
Erano anni in cui la “follia” assumeva, in modo esagerato, la valenza di una forza dirompente, creativa e rivoluzionaria che avrebbe contribuito a scardinare gli assetti del potere.
Il potere dialettico della sofferenza mentale, un tempo giudicato quasi onnipotente, ed appunto rivoluzionario, ha progressivamente perso nei decenni il suo appeal, per usare un termine più attuale. L’idea, ai tempi acriticamente quanto superficialmente accettata, che fosse la società stessa a produrre, in modo un po’ semplicistico, la follia, si è stemperata, parallelamente all’affievolirsi dell’utopia rivoluzionaria e con il progresso della ricerca scientifica, in particolar modo della psicofarmacologia.
Questo silenzio relativo che oggi registriamo, ci muove ad una riflessione ed a qualche interrogativo.
Si può certamente discutere se sia il caso o meno di celebrare una Legge dello Stato.
Quello che è fuori discussione è la necessità di riflettere, in maniera ordinata e comprensibile ai più, non tanto su quello che nel 1978 quella legge ha rappresentato, quanto su quello di cui ancora “si occupa” e cioè la gestione sociale organizzata, istituzionalizzata e, per quanto possibile, fondata nella condivisione della comunità scientifica internazionale, della sofferenza mentale.
Una riflessione che deve uscire quindi dall’ambito strettamente accademico e da quello strettamente medico sanitario per un semplice motivo. E’ infatti comune a tutti, ad una intensità e vicinanza variabile, l’esperienza del disagio psichico. Un familiare, un parente, un amico, un vicino di casa, un compagno dei nostri figli ci fa preoccupare, ci spaventiamo e subito ci chiediamo in che modo possa essere aiutato e curato efficacemente.
Facendo un passo indietro e ripensando alla Legge ed ai valori che certamente la riforma ha promosso e di cui è stata espressione, crediamo di poter identificare un importantissimo passaggio trasformativo nella pratica psichiatrica tradizionale in Italia e cioè l‘evoluzione da un’etica, prima ancora che da una prassi, essenzialmente volta al controllo agito tramite la contenzione e l‘esclusione del malato (non infrequente era la reclusione di persone neanche portatrici di disagio mentale) verso una nuova etica della responsabilità sociale della malattia, della condivisione della patologia psichiatrica fuori dalle mura manicomiali e dentro la società stessa.
In quegli anni, legata all’idea della prevenzione della patologia psichiatrica, si afferma e si diffonde il concetto dell’“igiene” mentale come pratica sociosanitaria anche se è principalmente il concetto di riabilitazione il nuovo cardine clinico ed ideologico, in senso lato, per generazioni di operatori psichiatrici. Operatori questa volta anche non medici, con la creazione e lo sviluppo in quegli anni dei corsi di laurea in psicologia a Roma e Padova
Vengono progressivamente create nuove possibilità di formazione scientifica e professionale che prevedono il confronto proprio con ciò che un tempo era segregato, escluso, nascosto. Il confronto con la patologia psichiatrica ricollocata nel cosiddetto territorio, diventa si, uno strumento di formazione professionale ma anche di crescita personale, a detta di molti, da spendere nella collettività.
Possiamo anche chiederci, infine, cosa rende difficile un pensiero diffuso, critico, comprensibile e non celebrativo sulla attualità della legge.
Qualcosa di sordo pare ottundere la possibilità per il nostro pensiero di confrontarsi collettivamente, di riflettere e di pensare l’alienazione, la malattia mentale, la perdita di contatto con la realtà.
E’ probabilmente più semplice spezzettare, frantumare la follia in una molteplicità di Social Problems, permettendoci di pensarla (e cercare di affrontarla) un pezzo alla volta. La pedofilia, il femminicidio, il cyberbullismo (un tempo la tossicodipendenza e la devianza) si contendono la ribalta, non duratura, delle rappresentazioni massmediatiche e della nostra consapevolezza.
Senza una riflessione sulla materia sulla quale la riforma della legge 180 è intervenuta 40 anni fa, si arresta un processo delicato che ci rimanda, purtroppo, alla precarietà del nostro senso di normalità, ed a un senso del limite che confligge con altre istanze individuali e sociali volte alla negazioni dello stesso.
Riflessione necessaria se si condivide l’idea che Illusoria è la possibilità, nell’individuo e nei gruppi sociali, di mettere in maniera definitiva in condizione di non nuocere i propri funzionamenti mentali psicotici. Funzionamenti che rimandano a forme intermedie, sub cliniche, della perdita di contatto con la “realtà”, che in questi 40 anni è persino “aumentata” popolandosi di entità bizzarre di cui andare a caccia, e che probabilmente si impastano con più facilità nel nostro agire quotidiano con quel funzionamento mentale che Christopher Bollas chiama normotico.