La storia di una separazione piena di rabbia e rancore, tra un marito e una moglie. Concentrati entrambi sulle proprie vite future, già iniziate, i due cercano di liberarsi con i minori fastidi possibili di quel che resta del loro matrimonio: la casa comune e soprattutto il loro figlio di 12 anni, Alyosha, che appare subito come l’incomodo delle loro nuove vite: nonché l’oggetto delle recriminazioni, delle ripicche e delle rivalse, specialmente da parte della madre. Il bambino infatti, come lei stessa racconta con leggerezza nel salone della parrucchiera, le è stato estraneo sin dalla nascita, persino ostile. Altrettanto ostile il suo atteggiamento verso di lui, che raggiunge al massimo l’indifferenza. Ostilità e indifferenza che Alyosha percepisce definitivamente in una scena di memorabile intensità, in cui è rappresentato nella fissità di un urlo muto e disperato, mentre sente l’accesa discussione sul suo destino, a cui nessuno dei due genitori intende partecipare.
Con una colpevole inerzia temporale i genitori si accorgono, in quanto avvisati dalla scuola, che loro figlio è scomparso e da lì inizia un lentissimo e minuzioso processo di ricerca, affidato a una associazione di volontari (su consiglio del poliziotto a cui si rivolge la madre, che ammette l’incompetenza e il disinteresse delle forze dell’ordine), la cui struttura e organizzazione fanno pensare a un regime (c’è un unico capo, a cui tutti devono rapportarsi, e ognuno ha un compito specifico), improntato al risultato, immune da qualsiasi emozione e semmai limitato a registrare, senza un vero giudizio morale, l’assenza colpevole dei genitori, senza intuirne o indagarne la ancor più colpevole responsabilità. Da quel momento il film si trasforma in assenza, in silenzio doloroso, mentre prendono forma i sensi di colpa di entrambi i genitori, inchiodati dalla sorpresa del vuoto creato dal quel figlio così ignorato e dal terrore delle prospettive future delle loro vite senza amore.
Il film è ipnotico nella sua gelida e fermissima fotografia, nella lentezza della drammatizzazione dell’inverno russo declinato nello spazio naturale del bosco e nella dimensione urbana, impersonale e alienante, nonché quasi deserta, così come ipnotico è il procedere delle ricerche, eseguite con rigore metodico, quasi militare. La mancanza del bambino durante questa fase è quasi dolorosa anche per lo spettatore, che ne ha afferrato la straziante disperazione e che risulta sommerso dall’atmosfera di quieta angoscia che viene creata dagli attori (tutti bravissimi e straordinariamente veri e credibili), impegnati a rappresentare l’attesa, soprattutto quella dei genitori, che realizzano che la loro esistenza non sarà più la stessa in quanto il gesto del loro figlio li ha resi palesemente colpevoli, di una colpa che non può essere espiata.
La regia, che potrebbe risultare a tratti eccessivamente drammatica (apparentemente), è in realtà un’opera di cesello, fortemente simbolica, come gli studiatissimi indugi sulle viste dall’interno delle stanze attraverso le finestre (elemento ricorrente di tutto il film), quasi volesse offrire allo spettatore una via di fuga, una speranza di salvezza da una realtà inaccettabile come la mancanza di amore dei genitori verso il loro unico figlio, colpa estesa a un intero paese a cui metaforicamente vengono ricondotte altre colpe, con la ricorrente cronaca sui fatti dell’Ucraina ad esempio, che si affaccia dalle radio e dalla televisioni durante lo svolgersi della storia.
Un film disturbante e difficile da dimenticare, bellissimo (consigliata la versione in lingua originale).