Me la ricordo bene, quella sera d’autunno a Cagliari che non sembrava nemmeno una sera d’autunno, con il tramonto rosa e le nuvole grigie all’orizzonte sospinte da un vento leggero che arrivava da sud. Mancava un mese a Natale, ma la temperatura era eccezionalmente mite. La gente di città, giovani sciamannati, cricche di perditempo e famigliole in libera uscita, bighellonava tra i vicoli e le stradine umide della Marina in cerca di qualche locale o ristorante dove mandar giù un boccone e fare due chiacchiere in santa pace. Io invece me ne stavo sul divano nella mia topaia, arredata con una stufa a gas, due sedie, un tavolo e tre o quattro poster di donne seminude appesi alle pareti. Bevevo un campari soda, sgranocchiavo noccioline e guardavo la tv. I telegiornali traboccavano di immagini di Fidel Castro: il Líder Máximo era morto e i commentatori sciorinavano pareri banali, se non addirittura insipienti. Sarei rimasto volentieri tutta la sera a guardare la tv, sorseggiare campari e piluccare salatini, ma si stava facendo tardi e avevo un impegno di lavoro, in poche parole dovevo muovere il culo da quel divano e vestirmi. All’epoca mi guadagnavo da vivere scrivendo articoli per un sito che si occupava di arte, musica e libri. Mi pagavano una miseria, ma almeno ogni tanto mi pagavano. Quella sera lì dovevo andare al Covo Art Cafè, un buco di posto in via Barcellona, soffitti bassi e luci soffuse, dove gravitava il meglio della scena musicale indie-folk cagliaritana. C’era una serata dedicata a Bob Dylan, che un mese prima aveva vinto il premio Nobel per la letteratura. In cartellone c’erano una dozzina di artisti e musicisti, molti erano giovani, si stavano facendo le ossa sui palchi dei piccoli locali e nei pub cittadini. Ripensarci adesso fa una certa impressione: oggi tutta quella gente è diventata famosa, influente e soprattutto pagata a peso d’oro, ma in quel periodo sbarcava il lunario al massimo con qualche decina di euro a notte. Era gente di talento, questo è sicuro. Cagliari non era ancora New York, ma presto lo sarebbe diventata, almeno dal punto di vista dell’offerta musicale. Il Covo apriva al tramonto e chiudeva alle quattro del mattino. Servivano panini eccellenti e birra alla spina. E se volevi passare un paio d’ore in compagnia di qualche svitato, be’ quello era il posto giusto, di clienti normali se ne vedevano ben pochi. Poi a un certo punto arrivavano i musicisti, e quella specie di caverna diventava un paradiso sonoro. Quella sera lì, la sera dei Dylanisti Anonimi, me la ricordo come fosse ieri. Fu una festa coi fiocchi. Gli organizzatori, quei buontemponi dell’associazione culturale MenoZero, proprio loro, quelli che poi hanno tirato su l’impero multimediale che tutti conosciamo, se ne stavano seduti attorno a un tavolo, bevevano birra e trangugiavano patatine fritte. Qualcuno me li presentò. C’erano Riccardo, Maria Francesca, Caterina, Francesca: gente che di lì a qualche anno avrebbe preso a schiaffi il mondo. Gli altri del gruppo già li conoscevo, il Dottor Riccardelli, Bang LoveBeat e Lonesome Hobo, così si facevano chiamare. Pian piano il locale iniziò a riempirsi. Serate del genere richiamavano un pubblico variegato: spacciatrici di tisane come Viviana, chitarristi e musicisti come Roberto Palmas e Mario Brai, gente di teatro come Elisabetta Podda, scrittori emergenti come Mauro Tetti e Antonio Boggio, critici letterari e giornalisti come Fabio Marcello, Alfredo Franchini e Paola Cireddu. Io mi sistemai in piedi al centro della sala. Faceva caldo ma forse era per via del giubbotto che indossavo, una specie di giaccone pesante che avevo acquistato a buon prezzo a un mercatino dell’usato. Gli altri mi guardavano sempre con sospetto, come se sotto il giaccone nascondessi qualche arma o chissà cosa. Gli artisti andavano e venivano, aspettavano il loro turno e gironzolavano con un bicchiere in mano. Quella sera lì, i Dylanisti Anonimi si presentarono con un nuovo chitarrista, un tale che diceva di chiamarsi Giacomo Del Toro ma che a dispetto del nome italianissimo era un londinese doc. A un certo punto arrivò anche Stefano Matta, all’epoca esordiente. Tirò fuori un paio di brani di Dylan tradotti in italiano, una scelta coraggiosa. Poco dopo una ragazza tra il pubblico chiese a gran voce “Changing of the guards”, ma non venne accontentata. Hola La Poyana, che in quel periodo aveva già iniziato a farsi un nome, scaldò i cuori con alcune canzoni dei primi anni ’60. Mentre Dainocova e Silvia Cristofalo strapparono applausi convinti con una versione post-dark di “One More Cup of Coffee”. Guido El Chino Solinas aprì l’album dei ricordi e sciorinò una superba “It Ain’t Me Babe”. Poi si unirono Nicholas Crozier e Claudio Zucca dei Rippers e insieme scoperchiarono il “Tombstone Blues”. Anche i Nikita & The Latecomers fecero breccia tra i dylaniati in sala. E qualcuno perfino si commosse quando Nicholas Crozier intonò “I Shall Be Released”. Me la ricordo bene, quella sera al Covo. All’epoca la bellezza sembrava sempre a portata di mano. Molte cose non avevano un’identità precisa, ma presto l’avrebbero avuta. I Dylanisti dicevano: “Bob indica la strada, non resta che mettersi in cammino”. Oggi lo possiamo dire: quella era gente che la sapeva lunga.
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